Nel panorama aziendale, per attività immobilizzate si intendono investimenti a medio lungo termine, ovvero destinati a restare nello stato patrimoniale per un periodo non inferiore ai 12 mesi, anche se spesso persino per decenni. Esse sono di tre tipi, immobilizzazioni materiali, immobilizzazioni immateriali e immobilizzazioni finanziarie.
Nel primo caso, parliamo di quegli investimenti in beni fisici, tangibili, come immobili, mobili, macchinari, impianti. Nel secondo caso, invece, si tratta di beni non tangibili, ovvero non fisici, invisibili, ma non per questo meno importanti per la produzione di beni o l’erogazione di servizi, anzi. Si tratta, per esempio, dei brevetti, delle spese di ricerca e sviluppo o di quelle pubblicitarie. Anche questi sono investimenti, ma non in beni materiali, e allo stesso tempo contribuiscono ad incrementare la produzione in un periodo superiore all’anno. Una campagna pubblicitaria, per esempio, punta sia a fidelizzare i clienti che anche a trovarne di nuovi. Risulta essere vero che a volte può sortire effetti solo di breve durata, ma generalmente punta a incrementi nelle vendite in un arco di tempo lungo, negli anni. Infine, le immobilizzazioni finanziarie sono rappresentate da crediti non commerciali, questi hanno quasi sempre durata breve, inferiore all’anno, rientrando nell’attivo circolante, e investimenti di natura finanziaria, come obbligazioni, ma anche e, soprattutto, partecipazioni in altre società.
Per quanto possano apparire molto diverse tra di loro, le differenti attività immobilizzate hanno in comune il fatto di non potere essere dismesse nell’immediato, sia per ragioni tecniche che per altre di natura economica. Per esempio, non è possibile da un momento all’altro disfarsi di un macchinario, a meno che non se ne abbia pronto subito un altro o che esso sia diventato del tutto inutilizzato per una qualsiasi ragione, così come non è nemmeno facile liberarsi in poco tempo di una partecipazione azionaria, vuoi per l’impossibilità pratica spesso di trovare un acquirente, vuoi anche per evitare che le quotazioni scendano eccessivamente. Non tutte le partecipazioni possono considerarsi immobilizzazioni, non quelle dalla durata temporanea, realizzate a fini speculativi. Per esempio, una società X acquisisce una quota della società Y, approfittando di un’OPA appena lanciata da una terza società Z sulle azioni di Y. Il fine non è il controllo o altre ragioni di politica industriale o finanziaria, m realizzare nel minore tempo possibile la plusvalenza derivante dal più alto prezzo di cessione rispetto a quello di acquisizione. In questo caso, è evidente che non ci troveremmo davanti a un’attività immobilizzata.
Le attività immobilizzate fanno parte chiaramente dell’attivo patrimoniale di un’azienda, ma proprio per la loro caratteristica di essere investimenti a medio lungo termine e che non possono essere immediatamente dismessi, vanno computate separatamente dall’attivo circolante, che è caratterizzato da una presenza di breve termine nel patrimonio aziendale, inferiore all’anno. Parliamo dei crediti commerciali, delle rimanenze di magazzino e della liquidità di cassa. Queste attività circolano più volte nell’anno, da qui il nome.
Risulta essere importante distinguere tra attivo circolante e attività immobilizzate perché solo una loro attenta analisi può evitare eventuali crisi di liquidità, che scaturirebbero da uno sfasamento temporale tra le scadenze del passivo e la capacità dell’attivo di farvi fronte. Un imprenditore o manager oculato, quindi, ha il dovere di verificare quali siano le scadenze delle obbligazioni nel breve termine, rispetto alla massa dell’attivo circolante. Può accadere, infatti, che formalmente un’azienda possegga sufficienti asset a copertura dei debiti, ma che nei fatti si creino dei buchi a breve, derivanti dal fatto che la maggioranza della massa attiva è immobilizzata e non circolante, per cui i tempi per smobilizzare gli investimenti di medio lungo termine potrebbero risultare incompatibili con quelli necessari a coprire le scadenze.
Dunque, le attività immobilizzate sono quelle che non esauriscono la loro utilità nell’arco dell’anno, ma contribuiscono all’accrescimento della produzione per più esercizi. Di conseguenza, nemmeno il loro costo di acquisto può essere caricato solamente sull’esercizio in cui viene sostenuto, ma dovrà essere spalmato o come si usa dire nel gergo aziendale e fiscale, ammortizzato per il periodo previsto dalle norme civilistiche e da quelle fiscali. Il costo derivante da tali ammortamenti deve essere imputato ogni anno al conto economico, per cui deprimerà il risultato finale dell’esercizio.
Proprio per fornire a chi legge un bilancio un’idea più veritiera dell’andamento aziendale, oltre alle cifre sugli utili o sulle perdite, si utilizzano altri indicatori aziendali, come l’Ebitda, acronimo inglese che sta per utile prima degli interessi, tassi e ammortamenti. Un esercizio potrebbe concludersi, infatti, in perdita, ma non perché le spese effettivamente sostenute nel periodo siano state superiori alle entrate, quanto per la convenzione di ammortizzare i costi legati a un’immobilizzazione lungo più esercizi. Nei fatti, potrebbe non essere stata sostenuta un’uscita monetaria nell’esercizio, ma semplicemente l’ammortamento ha contributo ai fini civili e fiscali alla depressione del reddito finale. Si consideri, infine, che le immobilizzazioni possono essere anche oggetto di rivalutazione. Risulta essere il caso di una partecipazione, il cui valore potrebbe venire adeguato ai prezzi di mercato al 31 dicembre dell’esercizio concluso. In questo caso, siamo davanti a un accrescimento del valore dell’immobilizzazione, di cui beneficerà il conto economico.