Il termine plusvalenza indica in economia un aumento di valore registrato da un bene immobile o da un titolo. Non si tratta, quindi, di un reddito vero e proprio, perché, come vedremo, esso potrebbe non comportare una reale entrata monetaria. Si consideri, per esempio, l’acquisto di un pacchetto azionario da parte di una società nell’esercizio X. Poniamo che il prezzo medio di carico di 1.000.000 di azioni sia stato pari a 1,50 euro e che nell’esercizio successivo, esso salga a 2,00 euro. Ciò significa che il pacchetto sia costato alla società 1,5 milioni di euro e che a distanza di un anno risulti valere 2 milioni. In teoria, la società iscriverà nell’esercizio X+1 una plusvalenza pari a (2 mln – 1,5 mln) = 0,5 mln di euro.
Attenzione, però, perché l’accrescimento del valore del pacchetto azionario non si è ancora tradotto in un reddito reale, in quanto le azioni non sono state rivendute sul mercato e, quindi, a fronte dell’1,5 milioni del costo iniziale, non si è registrata materialmente alcuna entrata. In teoria, il prezzo delle suddette azioni potrebbe anche precipitare al di sotto di quello medio di acquisto e, pertanto, determinare potenzialmente una minusvalenza.
Diciamo questo, perché con le plusvalenze teoriche non si possono costruire i bilanci di una società, magari a copertura di debiti in scadenza o altre spese, perché ciò potrebbe condurre a un rischio di insolvenza. Fino a quando la plusvalenza non viene effettivamente realizzata con la cessione del bene o del titolo, non si ha materialmente moneta per finanziare una voce di spesa o una scadenza di debiti.
Lo sanno bene coloro che sono abituati a leggere i bilanci societari, perché il concetto sopra esposto ha a che fare con la differenza tra valori economici e valori finanziari e di cassa, non coincidenti tra di loro, se non nel lungo termine.
Dunque, la plusvalenza è l’accrescimento del valore di un bene immobile, mobile o di un titolo, rispetto al valore iniziale di acquisizione. Si pensi a una casa, la acquisto in un dato anno per 150.000 euro e la rivendo dopo 10 anni a 250.000 euro. La differenza di 100.000 euro rappresenta la plusvalenza realizzata dalla compravendita.
Risulta essere evidente, che rappresentando una fonte di reddito per il titolare del bene o del titolo, una volta realizzata, la plusvalenza viene generalmente tassata. La tassazione sulle rendite finanziarie è proprio un esempio di tale situazione. Il maggiore valore dei titoli di natura finanziaria rispetto al loro valore di acquisizione viene sottoposto oggi a un’aliquota del 26%. Attenzione a non confondere tale guadagno in conto capitale o capital gain con la cedola, che è il dividendo distribuito dalla società a titolo di partecipazione ai risultati della gestione economico finanziaria.
Nel campo immobiliare, non sempre la plusvalenza viene tassata. Non quando un immobile sia stato acquisito per successione e successivamente rivenduto a un determinato prezzo, o quando esso sia stato acquisito a titolo oneroso o per donazione, ma per la maggioranza del tempo di detenzione, il cedente lo abbia utilizzato come abitazione principale propria o per un proprio familiare. Per abitazione principale non intendiamo la prima casa, ma una dimora dove è solito risiedere il cedente dell’immobile medesimo.
Si applica la tassazione, invece, quando l’immobile, acquisito a titolo oneroso o per donazione, sia stato rivenduto prima dei 5 anni dalla data di acquisto o di costruzione e per la maggior parte del periodo di possesso, il cedente non lo abbia utilizzato come abitazione principale.
Le plusvalenze di natura finanziaria scontano il pagamento dell’imposta del 26%, 12,50% se realizzata attraverso la compravendita di titoli di stato, ma possono essere compensate con le minusvalenze. Questo consente a un investitore di abbattere il carico fiscale, ma non sempre. Per prima cosa, le minusvalenze possono essere compensate solo nell’esercizio in cui si realizzano e nei quattro successivi. Inoltre, la compensazione potrà avvenire solo con le plusvalenze realizzate dai prodotti finanziari e che producono i cosiddetti redditi diversi.
Inoltre, le plusvalenze vengono assoggettate alla base imponibile ai fini Irpef, quando sono prodotte dalla cessione di partecipazioni qualificate. Esse si hanno con il raggiungimento del 2% dei diritti di voto o del 5% del capitale azionario, se la società partecipata è quotata, al raggiungimento del 20% dei diritti di voto o del 25% del capitale azionario, se la società partecipata non è quotata.
Esistono casi di esenzione d’imposta sulle plusvalenze, che si hanno quando ricorrono i seguenti requisiti, le partecipazioni sono state detenute ininterrottamente nei 12 mesi precedenti alla cessione, le partecipazioni devono essere state classificate alla voce immobilizzazioni finanziarie al primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso, la società partecipata non deve rientrare in uno stato a fiscalità di vantaggio per almeno i tre periodi d’imposta precedenti alla cessione, la società partecipata deve esercitare principalmente un’attività commerciale, almeno dall’inizio del terzo periodo d’imposta precedente alla realizzazione della plusvalenza.