Nel linguaggio aziendale, quando si parla di impieghi si fa riferimento agli investimenti. Questi possono essere di breve o di medio lungo periodo. La differenza non è teorica, ma ha implicazioni importanti sulla gestione di una società, perché a seconda del caso, anche le fonti di approvvigionamento finanziario devono conformarsi. Per essere più chiari, se l’impresa ha la necessità di effettuare impieghi durevoli, ovvero di investire nel lungo periodo, come nel caso delle immobilizzazione, anche le fonti a cui attinge devono avere una durata medio lunga, mentre se gli impieghi saranno di breve durata, come nel caso dell’attivo circolante, le fonti finanziarie a cui fare ricorso dovranno avere una durata breve. Il rapporto tra impieghi e fonti determina, quindi, l’equilibrio finanziario di un’azienda nel breve, medio e lungo termine.
Prendiamo il caso di un’azienda che abbia bisogno di investire in un macchinario. Si tratta con ogni evidenza di un impiego durevole. Per questo motivo la fonte alla quale attingere per finanziare l’acquisizione deve essere di lunga durata, ovvero un aumento di capitale o una forma di indebitamento pluriennale, come l’emissione di obbligazioni o il credito bancario a lungo termine. Proprio per questo, spesso notiamo che società quotate in borsa annunciano ricapitalizzazioni in vista di imminenti investimenti durevoli. Le alternative, infatti, sarebbero meno equilibrate sul piano finanziario.
Chiaramente, non è sempre possibile ricorrere al capitale per finanziare le immobilizzazioni, in quanto le dimensioni aziendali potrebbero essere ridotte, magari vi è un unico socio con mezzi disponibili limitati, o potrebbe esserci scarsa disponibilità dei soci o del mercato a offrire il proprio denaro. Le ricapitalizzazioni, infatti, in presenza di più soci, finiscono per diluire il capitale posseduto, ovvero a ridurre il valore della singola quota, nel caso in cui si partecipi all’operazione. La conseguenza è che il prezzo del titolo di un’azienda quotata che si ricapitalizza si riduce, aumentando il numero dei titoli in circolazione e tra i quali dovranno essere ripartiti gli utili. Non è sempre detto, poi, che sul mercato si trovino potenziali nuovi soci, magari perché le condizioni generali sono avverse, come nel caso in cui sia in corso una crisi finanziaria, o perché la credibilità della società che richiede i capitali non è tale da attirarli.
Se non è possibile fare ricorso al capitale proprio, esistono altre due alternative, farsi prestare denaro a medio ungo termine da una banca o emettere obbligazioni a lunga durata. Nel primo caso il costo dell’operazione è l’interesse che bisogna corrispondere all’intermediario finanziario per ottenere la liquidità, mentre nel secondo caso è dato dal rendimento, somma tra l’interesse o cedola e la differenza positiva o negativa tra prezzo di rimborso e quello di emissione.
L’emissione obbligazionaria non è consentita a tutte le imprese sul piano normativo, ma potrebbe risultare una strada poco percorribile anche per le società che formalmente avrebbero la possibilità, nel caso in cui le condizioni del mercato non lo permettessero. Si pensi al caso delle società con rating basso sui propri debiti. Del resto, nemmeno il ricorso ai prestiti bancari è sempre conveniente o possibile, trattandosi di operazioni a lungo termine.
Diversa è la situazione per gli impieghi di breve durata, perché per questi sono necessari fonti a breve. Dunque, niente ricapitalizzazioni o emissioni obbligazionarie, tranne che non prevedano scadenze abbastanza ravvicinate. Di solito basta un classico finanziamento bancario di pochi mesi o qualche anno al massimo. Tuttavia, se si tratta di finanziare operazioni di pochi mesi, potrebbe risultare sufficiente anche solo un’oculata gestione della tesoreria aziendale, per esempio, migliorando la tempistica degli incassi e magari dilatando quella dei pagamenti, se possibile, senza impatto finanziario e sul fronte della credibilità dell’azienda.
Vediamo cosa accade se gli impieghi sono durevoli e le fonti di breve termine. In questo caso si determina una crisi di liquidità con effetti potenzialmente molto dannosi per l’azienda. Supponiamo di avere comprato un capannone per 200.000 euro e che abbiamo allo scopo acceso un finanziamento bancario di 3 anni. L’asset entrato a fare parte del patrimonio aziendale contribuisce ai risultati per un numero elevato di anni, ovvero si ripaga nel lungo periodo, mentre il prestito deve essere restituito entro i 3 anni e comprensivo degli interessi. Ponendo che il capannone ci frutti un rendimento del 4% all’anno, significa che esso genera cassa per 8.000 euro all’anno, a fronte della quale bisogna versare alla banca quasi 67.000 euro di solo capitale, oltre che gli interessi. A questo punto, o siamo in grado di attingere a nuova liquidità nel corso dei mesi e degli anni per finanziare la differenza esistente, oppure incorriamo in una crisi davvero pericolosa, perché per finanziare l’investimento dovremo accendere sempre nuovi prestiti o dovremo rinviare altri pagamenti, ma a discapito del rapporto di fiducia con i fornitori. Solo un prestito a lungo termine o una ricapitalizzazione consentirebbero un’oculata gestione del fabbisogno finanziario.