Nel linguaggio aziendale per capitale proprio si intende una componente fondamentale del patrimonio di una società. Esso può essere definito come l’insieme dei conferimenti apportati dai soci, nel caso di società di capitali, all’atto della costituzione. Se, per esempio, i soci apportano alla società di cui sono titolari per quota parte un totale di 250.00 euro, questo valore corrisponde al capitale proprio. Esso è destinato a variare nell’arco della durata della società. Immaginiamo che questa maturi un utile netto di 30.000 euro al termine del primo anno. Il capitale proprio sarà pari a 250.000 + 30.000 euro, ovvero a 280.000 euro. Al contrario, le eventuali perdite subite andranno a ridurre il valore del capitale proprio.
Dicevamo che il capitale proprio costituisce un elemento fondamentale del patrimonio aziendale, il quale comprende, però, anche altre componenti, quali i debiti. Infatti, quando viene costituita una società o anche successivamente, oltre al capitale proprio può risultare utile o necessario ricorrere a mezzi esterni, che sono, appunto, i debiti contratti tramite istituzioni finanziarie o ricorrendo al mercato. Se, per esempio, oltre ai 250.000 euro sopra indicati e apportati dai soci, la società decidesse di contrarre finanziamenti bancari per altri 100.000 euro, necessari per il funzionamento della stessa, anche questo valore sarebbe nei fatti una componente del patrimonio aziendale, ma non rientrerebbe tra le voci del capitale proprio, perché si tratta di mezzi apportati da soggetti esterni e non in qualità di azionisti o proprietari dell’azienda, ma di creditori.
A sua volta, il capitale proprio si compone del capitale d’apporto e di quello di risparmio. Nel primo caso, parliamo dei mezzi apportati dai soci in fase di costituzione della società o di un aumento di capitale. Il capitale di risparmio, invece, è l’insieme degli utili maturati dalla società e non distribuiti ai soci o prelevati dall’imprenditore. Sono importanti entrambi. Vediamo perché.
Quando viene creata una società, servono mezzi per acquistare macchinari, impianti, immobili, capannoni, per anticipare i costi di acquisto dei fattori produttivi, i quali solo in un secondo momento daranno origine a ricavi. Per questo, serve che l’imprenditore investa un capitale proprio o che i soci apportino conferimenti, i quali nel loro complesso consentano alla direzione di procedere ad istituire la società e ad avviare l’attività produttiva per cui essa nasce. Potrebbe non bastare. Se i mezzi raccolti tra i soci si rivelassero insufficienti allo scopo, potrebbe risultare necessario fare ricorso all’indebitamento, che non è affatto un atto sbagliato, sempre che la società abbia un adeguato dosaggio tra i mezzi propri e il ricorso a quelli esterni. Il debito, infatti, pone essenzialmente due problemi alla società. Uno è finanziario, esso matura interessi, che sottraggono risorse all’attività produttiva e agli utili. Un altro è di gestione, un’elevata percentuale di debito rispetto al capitale proprio espone la società a dipendere eccessivamente dal giudizio dei creditori, banche, altre istituzioni finanziarie o obbligazionisti. Risulta essere come se il potere gestionale ne risultasse affievolito, a tutto vantaggio dei veri padroni della società, i creditori.
Diventa così importante attingere a quanti più mezzi propri possibili sia in fase di avvio che di ricapitalizzazione, in modo da minimizzare o evitare del tutto le esposizioni debitorie. Chiaramente, anche il capitale proprio necessita di una remunerazione, altrimenti nessuno investirebbe in una società. La remunerazione del capitale sono gli utili, o meglio, i dividendi distribuiti, se parliamo di società di capitali. C’è differenza tra utili e dividendi. I primi sono il risultato della gestione aziendale in un dato periodo, sul quale possono incidere fattori di natura straordinaria e finanziaria. Non tutto l’utile maturato viene però generalmente diviso tra i soci. In genere, una parte viene accantonata, a parte la percentuale minima obbligatoria prevista per legge come riserva legale. Gli utili risparmiati entrano a fare parte del capitale proprio, perché non sono altro che una componente attiva del patrimonio aziendale. Infatti, gli utili non distribuiti sono un valore a cui la direzione può attingere in caso di investimenti futuri o di future distribuzioni in favore dei soci.
Un sinonimo di capitale proprio, utilizzato in ambito contabile, è patrimonio netto. Esso è la differenza, infatti, tra il patrimonio complessivo di un’azienda e le passività. Queste coincidono con i debiti verso terzi, per cui ciò che resta è il capitale proprio come sopra abbiamo definito. In sintesi, il capitale proprio è uguale ai conferimenti dei soci o dell’imprenditore unico + gli utili maturati + le riserve – perdite d’esercizio.
Il capitale proprio è quindi un elemento importante.