Il dividendo è una porzione di utili distribuita dalla società ai soci azionisti. Come sappiamo, le azioni sono titoli di rischio, che assegnano ai possessori, almeno nella versione ordinaria, il diritto di voto in assemblea e di partecipare alla distribuzione degli utili. Ogni anno, quindi, una parte dei profitti maturati dovrebbe essere suddivisa ai soci come compenso per il loro investimento nel capitale sociale. Attenzione, però, perché si tratta di una quota minima dei guadagni realmente messi a segno dagli azionisti in borsa. Si stima, per esempio, che un ventesimo o poco più di questi derivano dallo stacco delle cedole, mentre la quasi totalità proviene dalle plusvalenze realizzate attraverso la rivendita delle azioni a prezzi maggiori di quelli di acquisto. Nonostante questo, il dividendo si mostra in grado di direzionare i prezzi dei titoli.
Generalmente, con piani triennali le società quotate in borsa segnalano la quota di utili che intendono distribuire ai soci, detta anche payout. Un payout del 60%, per esempio, implica che il 60% dell’utile netto maturato nell’esercizio verrà distribuito ai soci in forma di cedole. Più alto esso è, maggiore il prezzo tendenziale delle azioni, dato che queste si rivelano più redditizie. In effetti, non dobbiamo dimenticare che, in linea di massima, chi investe sui mercati finanziari ha davanti due alternative, buttarsi sull’azionario o sull’obbligazionario. La scelta dipende dalla remunerazione attesa dall’una e dall’altra forma di investimento. Ora, mentre per i bond si hanno certezze sui flussi di reddito alla scadenza in entrata con la riscossione delle cedole e sul rendimento complessivo, non lo stesso dicasi per le azioni. Queste sono tipicamente investimenti a rischio e aleatori. I loro prezzi possono scendere o salire drasticamente, senza che chi le possiede possa confidare, come per i bond, su prezzi di rimborso alla scadenza, essendo titoli senza scadenza, e nemmeno le cedole sono note a priori. Un’impresa potrebbe subire perdite inattese per diversi esercizi a seguire, non riuscendo così a distribuire dividendi agli azionisti, oppure potrebbe anche maturare grandi utili, scegliendo di distribuirne solo una minima parte e tenendo in cassa il resto nell’ottica di investimenti futuri.
Dunque, un azionista non ha idea se e quanti dividendi percepirà nel periodo in cui deciderà di detenere il titolo. Per sua fortuna, più basso il payout, maggiore il monte utili accantonato a riserva, il quale a sua volta tende nel tempo a fare lievitare il prezzo delle azioni, non fosse altro per l’attesa di cedole future più sostanziose o anche confidando nel maggiore valore patrimoniale della società. Pertanto, alla lunga anche un payout relativamente basso finirebbe per sostenere i guadagni degli azionisti, ma in forma di plusvalenze potenziali più che di dividendi effettivamente percepiti. Il caso più unico che raro è stato rappresentato da Apple, che non distribuì un solo centesimo di utili tra il 1995 e il 2012. Questa politica fu sperimentata con molta insofferenza dagli azionisti, ma ebbe il merito di sostenere la corsa dei prezzi e la liquidità aziendale. Alla fine, chi ha acquistato il titolo alla metà degli anni Novanta e lo ha rivenduto in questi anni, ha portato a casa plusvalenze enormi.
In effetti, quando si valuta se il prezzo di un’azione è o meno sopravvalutato, si è soliti fare riferimento a un indicatore, il price/earning ratio, rapporto prezzo utili. Si tratta del rapporto tra il prezzo del titolo e gli utili di un dato esercizio. Più alto il multiplo, maggiore il rischio che le azioni siano overbought, ovvero ipercomprate. Come abbiamo detto sopra, utili e dividendi non coincidono, ma è ovvio che le due misure siano tra loro legate, anche se non necessariamente nel breve e medio termine. In effetti, una società potrebbe anche decidere di distribuire utili inesistenti, attingendo alle riserve di utili. Ciò accade generalmente per non indisporre l’azionariato e per premiare i cassettisti, quelli che posseggono il titolo con la volontà di mantenerli a lungo.
Non è nemmeno detto che una società decida di distribuire utili in forma liquida. Essa potrebbe ricorrere all’emissione di azioni di nuova emissione. In quel caso, agli azionisti verranno offerti nuovi titoli, che chiaramente potranno rivendere quando lo riterranno opportuno. Se viene loro concessa libertà di scelta tra nuove azioni o cash, saremmo nell’ambito del crip dividend. Tornando al concetto di rendimento azionario, detto dividend yield nella terminologia anglosassone, esso è dato dal rapporto tra il dividendo distribuito e il prezzo di borsa vigente in chiusura dell’ultima seduta prima dell’annuncio. Per esempio, se la società X decide di distribuire un dividendo pari a 1 euro per azione e il prezzo delle azioni nella seduta immediatamente precedente ha chiuso a 20 euro, il dividend yield risulta essere del 5%, 1 : 20. Di solito, questo rapporto medio per le società quotate in un listino si confronta con i rendimenti obbligazionari a medio lungo termine nello stesso mercato, al fine di valutare se il comparto azionario stia diventando più o meno allettante rispetto a quello dei bond, tenendo conto che, trattandosi di un segmento maggiormente a rischio per gli investimenti, la sua remunerazione dovrebbe risultare almeno leggermente premiante. Un dividend yield basso non necessariamente riflette un payout insufficiente. Esso potrebbe semplicemente essere il frutto di prezzi delle azioni troppo alte.