Il margine commerciale è uno degli indicatori utilizzati dalle imprese, specie quelle attive nell’ambito della distribuzione, per rilevare la redditività di un prodotto o anche di un’intera categoria merceologica. Esso può essere calcolato come rapporto tra margine di intermediazione e prezzo di vendita del prodotto al netto dell’IVA, dove per margine di intermediazione si intende la differenza tra il prezzo di vendita del bene e il costo di acquisto dello stesso.
Se un’impresa vende o distribuisce più prodotti, il margine commerciale complessivo può essere desunto dalla differenza tra il fatturato totale e il costo totale di acquisto, a sua volta rapportata al fatturato totale e il cui risultato va moltiplicato per 100. A differenza del margine commerciale, che è espresso da un valore percentuale, il margine complessivo non si ricava in tali termini.
Quando al margine commerciale vengono sottratti tutti gli altri costi variabili sostenuti, si ottiene il margine di contribuzione, particolarmente utile per il calcolo del cosiddetto punto di break even. Questo esprime il livello di prezzo vendite, al di sopra del quale il prodotto diventa profittevole per l’impresa che lo produce o distribuisce.
In azienda vengono impiegate altre formule non meno importanti, come il mark up, che esprime un margine applicato al costo di acquisto, al fine di ottenere un prezzo di vendita compatibile con un livello di profitto minimo. Esso è dato dalla differenza tra prezzo di vendita e costo di acquisto, rapportata al costo di acquisto. In altri termini, con il mark up, l’impresa si limita ad osservare il costo di acquisto di un prodotto e ad esso somma una certa percentuale per determinare il prezzo. Esempio, un grossista ricava il costo di acquisto di una confezione di 20 pannolini per bambini, pari a 6,50 euro. Applica a tale costo un margine del 20%, per cui distribuisce ai clienti la stessa confezione a (6,50 x 1,20) euro + IVA, ovvero a 7,80 euro + IVA.
Per quanto apparentemente sbrigativa, questa formula si mostra abbastanza semplice e veloce per essere impiegata ai fini della fissazione del prezzo di vendita. Ma tornando al margine commerciale, esso esprime quanto rimane all’impresa, dopo avere sostenuto il costo per l’acquisto del prodotto che ha rivenduto.
Per fare in modo che i calcoli siano corretti, però, è necessario scorporare l’IVA sia quando facciamo riferimento al prezzo di vendita che quando ci riferiamo al costo di acquisto. Facciamo un esempio, la confezione da 20 pannolini per bambini è stata acquistata dal grossista per 6,00 euro, IVA inclusa. Bisogna, quindi, detrarre da tale numero proprio l’IVA, ovvero compiere la seguente operazione, 6,00 / 1,22, visto che l’aliquota applicata è qui del 22%. Otteniamo che il costo sostenuto è stato di 4,92 euro, mentre stiamo rivendendo la confezione a 6,50 euro + IVA, ovvero siamo in presenza di un margine pari a 6,50 – 4,92 / 6,50 = 0,243, che moltiplicato per 100 fa 24,3%. Evidentemente, il grossista si trova in una posizione di mercato dominante, avendo la possibilità di fissare prezzi di vendita notevolmente superiori ai costi. In un mercato molto concorrenziale, invece, il margine commerciale tende ad assottigliarsi.
Vediamo perché non considerare l’IVA al fine del calcolo. Semplice, quella relativa agli acquisti costituisce per l’impresa un credito fiscale verso l’Erario, mentre quella applicata al prezzo di cessione di un bene è un importo a debito verso l’Erario stesso. In altre parole, non deve essere tenuta in considerazione, perché fa parte di una sfera non attinente a quella dei ricavi e costi effettivamente registrati.
Qualsiasi impresa tende a massimizzare il suo margine commerciale, compatibilmente con le condizioni del mercato. Come abbiamo anticipato, maggiore è la concorrenza nello stesso settore, minore sarà la capacità dell’impresa di ottenere un elevato margine commerciale, immaginando che i costi di acquisto siano uguali per tutte. Viceversa, in una situazione di scarsa concorrenza, finanche di monopolio, il margine commerciale può essere relativamente elevato.
Chiaramente, non è nemmeno detto che l’aumento del margine commerciale si trasformi in una più alta redditività per l’impresa. Se, infatti, le vendite dovessero diminuire in misura più che proporzionale, saremmo dinnanzi a un calo complessivo dei ricavi. Veniamo a un altro tema importante per chiunque produca o distribuisca un prodotto, ovvero l’elasticità della domanda rispetto al prezzo.
Alcuni beni sono poco elastici, in quanto alle variazioni del relativo prezzo corrispondono variazioni in percentuale minore delle vendite. Per esempio, aumento del 20% il prezzo dei pannolini, ma le vendite mi si riducono del 7%. Evidentemente, il prodotto possiede una peculiarità tale da renderlo poco suscettibile ad ampie fluttuazioni della domanda in risposta a variazioni dei prezzi. In questi casi è possibile puntare a un maggiore margine commerciale senza intaccare la redditività complessiva.
Viceversa, la domanda per altri beni si mostra abbastanza volatile rispetto al prezzo. Esempio, aumento del 10% il prezzo delle arance per kg, ma le vendite crollano del 20%. Evidentemente, il potere di fissazione dei prezzi per l’impresa è in questo caso abbastanza limitato, per cui il margine commerciale non è grosso modo determinato da essa.