Per private equity si intende un investimento istituzionale a titolo di capitale di rischio in una società generalmente non quotata, destinato a un’ottica di medio lungo termine e che si pone come obiettivo la creazione di valore, tale da determinare nel tempo un guadagno per il socio investitore, che si realizzerà con la rivendita della quota inizialmente acquisita.
Dunque, siamo in presenza di due soggetti, il socio investitore e il socio imprenditore. Questo o resterà legato alla gestione della società e si avvarrà dei mezzi finanziari messi a disposizione del primo per raggiungere gli obiettivi prefissati. L’investitore avrà bene in mente la separazione dei ruoli e rispetterà l’autonomia gestionale dell’imprenditore, così come questi avrà accortezza di considerare l’interesse del primo a vedere accresciuto il valore della quota detenuta, visto che non ha altro obiettivo reale, che non sia quello finanziario.
Cerchiamo di capire perché una società dovrebbe fare entrare nel suo capitale un socio esterno, che ha finalità non legate direttamente alla gestione. Le ragioni possono essere diverse. Alcune lo fanno per migliorare il rapporto tra capitali e mezzi propri. Una società eccessivamente esposta con le banche o verso altri tipi di creditori, per esempio, gli obbligazionisti, è troppo dipendente dalle condizioni del mercato e vulnerabile finanziariamente, perché in assenza di risultati solidi, avrà difficoltà a onorare le scadenze. Il rischio è che vi sia uno squilibrio tra mezzi propri e debiti, tale da rendere inefficiente la gestione e da assorbire fette crescenti di risultati per il solo pagamento dei debiti.
In alcuni casi, il ricorso a un socio investitore potrebbe essere determinato dal bisogno di fare decollare una certa attività. Parliamo di una cosiddetta start up, ovvero di un progetto imprenditoriale, spesso messo in piedi da singoli individui o da imprese molto piccole, che per essere realizzato ha bisogno di mezzi altrui, preferibilmente diversi dall’indebitamento. Questo non solo è poco desiderabile, ma nella stragrande maggioranza dei casi in Italia persino poco realistico, dato che il sistema bancario del nostro paese è storicamente poco incline a finanziare le realtà minori, specie se ubicate in zone più a rischio, da un punto di vista creditizio.
Dunque, il private equity può essere determinante per rendere possibile anche lo stesso avvio di una realtà aziendale, così come per facilitarne il potenziamento, come attività di ricerca e sviluppo. Nella realtà concreta, le operazioni di intervento a titolo di capitale di rischio sono così tante e così specializzate, che ormai sembra difficile concepire contratti standardizzati per esse.
Ovviamente, per le società di investimento si tratta di interventi a rischio. In primo luogo, perché devono proiettare il potenziale guadagno derivante dal private equity in un arco temporale sufficientemente lungo da renderlo possibile e credibile, ma con il pericolo di non riuscire a prevedere tutte le variabili che nel frattempo potrebbero incidere negativamente sulla gestione.
Inoltre, in caso di difficoltà della società, sarà abbastanza difficile per il socio investitore liquidarsi della quota di capitale investita, anche perché, in genere, come abbiamo detto, non parliamo di realtà in borsa, per cui non esiste un vero mercato secondario in cui cedere ad altri il capitale.
Quando il socio investitore finanzia una realtà già matura, si parla anche di replacement capital, che si ha nel caso in cui si limita a sostituire uno o più azionisti di minoranza, ovvero senza mutare il capitale di controllo. In una simile condizione non è detto che le risorse in dotazione della società aumentino, a seconda dell’apporto netto.
Se, invece, a cambiare è proprio il pacchetto di controllo, allora siamo in presenza di un’operazione di buy out. A sua volta, si ha un leveraged buy out, quando l’acquisto della maggioranza del capitale avviene ricorrendo all’indebitamento, che sarà rimborsato con i flussi di cassa che si prevede saranno generati dalla gestione dell’azienda acquisita. Si ha, invece, un management buy out, quando alcuni manager interni o esterni all’azienda ne acquistano una quota, affiancati da una società di private equity. Questa può rilevare una quota di maggioranza, anche tramite la sottoscrizione di un patto di sindacato, o acquisire un pacchetto di minoranza.
Le operazioni di turnaround sono spesso mirate alla rilevazione di quote di aziende in crisi, magari in stato di liquidazione, con l’obiettivo di rivenderle o di cedere rami d’azienda o ancora di ristrutturare il debito, attraverso l’allungamento delle scadenze e l’abbassamento degli interessi.
Per arrivare all’attuazione dell’operazione, la società di private equity utilizza strumenti avanzati di valutazione dei rischi e degli asset aziendali, mentre nella fase successiva, l’aspetto più importante è dato dalla capacità di selezionare adeguatamente il gruppo dirigente, se si è soci di maggioranza.
Per quanto poco sviluppato in Italia, il private equity avrebbe effetti benefici soprattutto nel nostro paese, dove il tessuto imprenditoriale è caratterizzato da attività di dimensioni mediamente molto ridotte e sotto capitalizzate. A contenere il ricorso a un simile strumento è spesso la diffidenza degli imprenditori, così come le stesse piccole dimensioni aziendali, che disincentivano le società dal fare ingresso nel loro capitale.