Nel linguaggio aziendale ormai le sigle e le espressioni anglosassoni hanno preso il sopravvento e capita molto spesso, per non dire quasi sempre, di sentire definire, anche in occasioni ufficiali, determinate cariche con termini inglesi. Questo è il caso del nostro amministratore delegato, che sembra avviatosi a un certo disuso tra gli stessi manager, sostituito da più accattivante acronimo CEO, che sta per Chief Executive Officer. Un altro acronimo sta sostituendo progressivamente il termine italiano. Trattasi di direttore finanziario o responsabile finanziario, che oggi viene sostituito dall’inglese CFO, che sta per Chief Financial Officer.
In realtà sarebbe più appropriato continuare ad utilizzare i termini in lingua italiana, non per puro spirito patriottico, ma per la diversa corrispondenza dei termini alle cariche nei vari ordinamenti. L’amministratore delegato non è esattamente la stessa cosa del CEO, così come il direttore finanziario in Italia ha subito un’evoluzione abbastanza diversa rispetto a quella degli altri Paesi.
In estrema sintesi, negli anni 50 e 60 si era soliti parlare di ragioniere capo, che riportava all’amministratore delegato i risultati della gestione finanziaria, ovvero delle entrate e delle uscite correnti, oltre che dei crediti e dei debiti in scadenza. Risulta essere con gli anni 70 e 80, però, che la figura diventa non solo più autonoma, ma anche più potente, anzi, assume il massimo potere nel sistema aziendale italiana, acquisendo il controllo di un’intera area aziendale, avendo responsabilità pure in tema di controlli e di acquisti. Il fenomeno opposto si verifica negli anni Novanta, quando al direttore finanziario vengono sottratte diverse funzioni, quali quelle di internal auditing, pianificazione, finanza e tesoreria. Nell’ultimo ventennio, infine, la figura torna ad acquisire maggiori poteri, diventando responsabile della tesoreria e della finanza, oltre che gestore di tutte le attività che generino o assorbano risorse finanziarie.
La realtà aziendale italiana è molto diversa da quella americana e del panorama anglosassone, in generale. Le nostre imprese hanno tipicamente dimensioni medio piccole e sono frequentemente a gestione familiare, anche nel caso in cui vengano quotate in borsa. La conseguenza è una bassa specializzazione nelle funzioni amministrative, ricoperte il più delle volte dagli stessi azionisti di controllo o dai loro familiari, oppure da manager fedeli nei decenni, i quali tendono spesso a concentrare in poche mani il maggiore potere possibile, essendo la proprietà non contendibile o poco.
Chiaramente, stiamo generalizzando. Quanto detto sopra non significa che tutte le grandi aziende siano gestite così o che non abbiano subito alcuna evoluzione negli anni. Oggi, anche le società più solidamente nelle mani di un solo azionista riconoscono la necessità di ammodernare la propria struttura manageriale, operando una maggiore distinzione tra manager e proprietà, non nel senso che il primo sia estraneo alla seconda, ma che riporti ad essa, operando però con una certa autonomia, che è dovuta quando si gestisce un’impresa di certe dimensioni.
In genere, siamo portati ad assegnare maggiore importanza ai CEO, che sono anche spesso gli unici volti che conosciamo per le grandi realtà aziendali. La funzione del CFO, tuttavia, non è meno importante, anzi. Esso influenza la struttura degli investimenti, decide il modo in cui le risorse vengono impiegate e come le spese sono sostenute. Gestisce anche la massa dei crediti e dei debiti, assicurandosi che i risultati di breve periodo siano compatibili con la stabilità finanziaria nel medio lungo termine. In poche parole, se alla fine dell’esercizio si ha o meno un utile da distribuire agli azionisti in forma di dividendo, lo si deve il più delle volte al CFO più che al CEO. Questo, perché i debiti e i crediti societari influenzano i risultati finali, se gestiti in un modo o nell’altro.
Un CFO deve dimostrare una conoscenza abbastanza approfondita dei mercati finanziari, specie per le società con elevata generazione di liquidità. In genere, arriva alla carica dopo una lunga gavetta, frutto di anni di fatica e spesso in posizioni poco considerate, ma che influiscono sulla gestione complessiva della società. Per esempio, gestire una massa debitoria di un certo livello risulta spesso complicato. Il CFO deve muoversi tra la necessità di contenere i costi di rifinanziamento e quella di consolidare l’indebitamento, allungandone il più possibile le scadenze. Inoltre deve cercare di gestire al meglio le finanze, da un lato minimizzando il ricorso al nuovo indebitamento, dall’altro massimizzando i guadagni derivanti dalla gestione della massa creditizia, facendo in modo che nel breve, medio e lungo termine, i saldi finanziari siano sempre in equilibrio e non impattino il reddito e la fiducia nell’impresa.
In breve, il CFO è il migliore alleato del CEO, perché contribuisce a rendere possibile il raggiungimento degli obiettivi aziendali assegnati dal primo. I due devono parlarsi costantemente, perché la sfera finanziaria non è estranea da quella del business centrale dell’azienda. Se le vendite vanno male, è inevitabile che saltino gli equilibri sul fronte degli incassi e dei pagamenti e il CFO deve essere avvertito in tempo per apportare modifiche alle sue strategie.